LA CITTÀ DEI CLOCHARD di Diego Sergio Anzà
È proprio grande questa città. È una strana città. Non ha case, non ha bar, non ha cinema, non ha negozi, non ha giardini. E non ha il fiume ed il mare. Ha tante strade e tanti marciapiedi. Infangate e divelti. Ha ponti sbilenchi come bocche sdentate, come gole trafitte. Ha muri alti, di pietre bianche e di calce rossa. Quasi nessuno osa avvicinarsi. Il cerchio è maligno, l’aria acre, il respiro afflitto. È la città dei clochard. È in Italia. Vi abitano ottantamila scarti. Di giorno, dietro il muro trovano qualche lettera di conforto. Di notte, succhiano una stella e giacciono tra cartoni e stracci. Quando muoiono, i loro fratelli a quattro zampe svegliano il mondo.
Io non ho mai visitato questa città. Solo una volta ho preso i miei occhi tra le mani e li ho posati sul muro. Mi hanno sempre detto di non vedere e nulla ho visto. Le ombre non hanno colori. Poi si è aperto un abisso, e dalla terra secca è affiorato un palazzo scuro, senza finestre e senza balconi. Ho ripreso i miei occhi, ho disubbidito e ho scavalcato il muro. Solo un lupo ha guaito. Nel palazzo scuro c’erano scale d’oro, letti d’argento, poltrone di pelle viva, cucine di cristallo e scrivanie di mogano americano.
Mi hanno accolto tre uomini gentili ed eleganti. Piacere, sono il dott. BANK, padrone di casa; piacere, sono il dott. POL, il segretario; piacere, sono il dott. STAMP, il narratore. Si è aperta una grande porta ed è apparso un quarto uomo. Piacere, sono il dott. SCIENT. Aveva sulla testa un enorme microscopio di smeraldo.
Ho chiesto: ma che c’entrate voi nella città dei cochard? All’unisono: per non sentire il guaito dei cani e per non sentire il lezzo delle ombre, viviamo da cento anni sotto terra. Ora chissà come e perché, una voragine ci ha spinto in questa orrenda città. È un grosso guaio. Chi si occuperà più di far girare il mondo? Chi farà danzare i Numeri verdi e rosa? Chi parteciperà alla danza e la proteggerà? Chi la racconterà?
Piangente il dott. Scient: ed io che farò del bosone?
Guardate un po’, che tragedia planetaria. E quegli scarti di ombre, fuori, che vivono da incoscienti in mezzo agli stracci.
Sbigottito, ho azzardato una proposta. Da anni e anni fate girare il mondo, lo fate danzare. Potreste per qualche mese rallentare il Grande Motore. Magari, a piedi scalzi, fare un giretto in questa orrenda città. E che avessi detto. Giù dalle scale d’oro mi hanno buttato. E sia.
Ho cercato di saltare oltre il muro degli scarti. Si è avvicinato un Fido col pelo sporco. Tra i denti buoni, un cartone. C’era scritto:
” Si narra di un’ombra che ebbe il sopravvento
di stagioni torchiate e perdute
nemmeno il mosto gli rimase
solo il puzzo dei vespasiani
e un laconico latrare tra gente indifferente”.
ORMAI SOLO LE OMBRE SANNO SCRIVERE POESIE.
Diego Sergio Anzà